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lunedì 30 novembre 2015

Giveaway di Blood Butterfly dal 7 Dicembre al 7 Gennaio

Dal 7 Dicembre sarà possibile partecipare su Goodreads al Giveaway natalizio di Blood Butterfly!


Il vincitore non solo otterrà una copia  cartacea autografata del libro, ma avrà anche in regalo due gadget provenienti "direttamente" dal libro:
 una maglietta identica a quella indossata da uno dei personaggi, il simpaticissmo Rick, e una collana acchiappa-sogni proprio come la sua!


Ecco le foto:



I regali non mi sono ancora arrivati, perciò dovrete aspettare un po' per la foto dal vivo del premio del vincitore (che avrà una qualità migliore di queste, ve lo prometto!)

Mi raccomando, partecipate numerosi e restate "connessi" per le news!



sabato 28 novembre 2015

Vaneggiamenti di una Scribacchina: 16 "Lo straniamento, ma che diavolo è?!"




"Books are the quietest and most constant of friends; they are the most accessible and wisest of counselors, and the most patient of teachers.” 

Charles William Eliot

                 

  Lo Straniamento, ma che diavolo è?!



Come si intuisce dal titolo, oggi parleremo della “misteriosa” tecnica dello straniamento.
Ogni scrittore che si rispetti la conosce, ma molti quando la sentono nominare si straniscono -pun intended :)-, anche per i lettori lo straniamento non è esattamente uno sconosciuto, lo si incontra spesso, specialmente in ambito verista, se vogliamo restare in Italia, (si pensi alle opere di Verga), lo si trova anche nell’opera di Tolstoj, se vogliamo parlare di letteratura internazionale, e per finire, lo si studia anche a scuola.

Ricordo che quando lo spiegarono per la prima volta alla mia classe (credo fossimo in seconda liceo), la risposta generale (almeno di quelli fra di noi che non erano interessati alla scrittura) fu noia assoluta.

Ma in realtà, lo straniamento è una tecnica narrativa di tutto rispetto con una sua innegabile efficacia.


Ma vediamo in dettaglio di che tratta in questo appuntamento “estraniato” di questa vaneggiante rubrica…

Lo straniamento  è una tecnica stilistica che consiste nell'osservare la realtà da un punto di vista “strano”, “inconsueto” in modo che ciò che è vecchio e abituale risulti nuovo e insolito, ciò che viene considerato normale appaia strano (o viceversa ciò che potrebbe essere considerato strano, appaia normale) e riveli aspetti che solitamente non vengono percepiti da chi vive all'interno di quella realtà. 

Esso ha insomma lo scopo di liberare la percezione dall'automatismo.

Cerchiamo di essere più chiari…

Quando una cosa è stata percepita più volte, finisce semplicemente per essere riconosciuta come tale, ma non viene più vista per quello che effettivamente è; sta dinanzi a noi, noi sappiamo che esiste, ma non la vediamo più: essa è entrata a far parte dei nostri automatismi.
Uno dei mezzi di cui si serve la letteratura per far vedere le cose con occhi nuovi è appunto la tecnica dello straniamento. 

Essa viene usata dagli autori che intendono muovere una critica a certi aspetti della società, e invece di farlo in modo diretto, aperto, esplicito con un atteggiamento che potrebbe risultare moralistico, mettono a nudo tali aspetti semplicemente adottando il punto di vista di un personaggio “estraneo” a quel tipo di realtà e quindi capace di coglierne la “stranezza”.

Come detto sopra, Tolstoj usò spesso questa tecnica e arrivò addirittura a scrivere  un intero racconto, Cholstomer, seguendo il punto di vista di un cavallo.

L’effetto di straniamento può essere ottenuto con tecniche di vario genere.

Una è quella di descrivere le cose come se fossero viste per la prima volta, sempre molto frequente in Tolstoj.

Eccone un esempio tratto da “Guerra e Pace”, nel quale l’autore ci “mostra” uno spettacolo teatrale, assumendo il punto di vista di una giovane ingenua e del tutto estranea alle convenzioni e agli artifici del teatro e ai manierismi della società aristocratica che assiste allo spettacolo:

“Sul palcoscenico c’erano delle assi ben lisce al centro; ai lati c’erano dei cartoni dipinti che raffiguravano alberi; in fondo una tela era stesa su delle assi. Nel mezzo del palcoscenico sedevano delle ragazze in corsetti rossi e gonne bianche. Una, molto grossa, vestita tutta di seta bianca, sedeva a parte su una panchettina bassa a cui era stato appiccicato dietro un cartone marrone. Tutte queste ragazze cantavano qualcosa. Quando ebbero finito la canzone, la ragazza in bianco si avvicinò alla buca del suggeritore e a lei si avvicinò un uomo in calzoni di seta attillati alle grosse gambe, con una penna, con un pugnale, e si mise a cantare e a spalancare le braccia.”

Come si può notare, l’autore qui una lo straniamento in maniera “critica”: sotto lo sguardo ingenuo e proprio per questo “estraneo” di Nataša, oggetti, situazioni e personaggi rivelano la loro convenzionalità e appaiono per quello che veramente sono: le quinte sono solo cartoni dipinti, la prima donna è una donna molto grossa, il tenore canta enfaticamente spalancando le braccia…

La medesima tecnica può naturalmente essere utilizzata anche in chiave positiva, per fare emergere la bellezza e l’unicità di luoghi, cose, o persone che spesso guardiamo senza veramente vedere sebbene siano sempre sotto i nostri occhi.

Un altro meccanismo per ottenere l’effetto dello straniamento è quello di privare gli oggetti del loro contesto e donare risalto ad una specifica immagine, modificando in questo modo la maniera abituale di percepire le cose.

È questa la tecnica utilizzata da Swift quando osserva da una prospettiva ravvicinata i normalissimi oggetti che Gulliver ha in tasca o le bocche e i volti dei giganti di Brobdingnag:

“Con la regina pranzavano solo le due principessine, la maggiore di sedici anni e la più piccola di tredici e un mese. Sua Maestà mi metteva sul piatto un pezzetto di carne e io ne tagliavo una piccola porzione, ma il suo divertimento era proprio nel vedere che quel pranzo in miniatura, dal momento che lei (che pure era di stomaco delicato) in un solo boccone ingoiava quanto possono mangiare una dozzina di mietitori inglesi al pranzo della battitura, una vista che qualche volta non mancava di darmi il voltastomaco. Stritolava fra i denti un’ala d’allodola, ossa e tutto, sebbene nove volte più grossa d’un tacchino cresciuto, accompagnandola con un pezzo di pane più grande di un paio di pagnotte da dodici pence.”

Altre volte lo straniamento viene ottenuto descrivendo o definendo gli oggetti in modo da non facilitarne il riconoscimento: in questo caso lo scrittore, per indicare una certa realtà, sostituisce il termine consueto con una perifrasi che a prima vista rende l’oggetto irriconoscibile, ma a una lettura più attenta fa emergere le caratteristiche più autentiche. 

Lo fa Swift, maestro indiscusso della “ridefinizione” quando nel suo celebre romanzo, Gulliver si reca nel paese dei cavalli. 
Un soldato, per esempio e definito con la seguente perifrasi: un uomo pagato per uccidere a sangue freddo quanti più simili gli è possibile, o  viene chiamato  “yahoo”.

Non sempre però lo straniamento è ottenuto utilizzando l’ottica di un unico personaggio estraneo al mondo che lo circonda, a volte il procedimento viene capovolto. Lo fa Verga sia nelle sue novelle che nei suoi romanzi(La roba; Rosso Malpelo).

Lo scrittore assume il punto di vista di un’intera collettività che, a causa di un’ottica pregiudizievole e distorta, considera normale ciò che invece è strano, e strano ciò che dovrebbe essere normale. Come si evince, appunto, dalla novella Rosso Malpelo.

Per il narratore che narra seguendo il punto di vista degli operai della cava, la sopraffazione e la violenza nei confronti di Rosso sono “normali”; “strano” è invece l’attaccamento del ragazzo agli attrezzi del padre e la sua decisione di non venderli, rinunciando ad un innegabile guadagno.

Vediamo un piccolo stralcio:

"Nessuno badava al ragazzo che si graffiava la faccia ed urlava, come una bestia davvero.
- To'! - disse infine uno. - È Malpelo! Di dove è saltato fuori, adesso? 
- Se non fosse stato Malpelo non se la sarebbe passata liscia... -
  Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà, nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s'era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza."

La tecnica dello straniamento è ampiamente utilizzata anche nel genere fantastico, nel quale spesso capita che degli oggetti conosciuti e banali siano collocati in un contesto fuori-norma e diventino “strani”, “minacciosi”, dando l’impressione che la realtà consueta sia sul punto di distruggerti.


Come si può comprendere, lo straniamento permette all'autore di focalizzare indirettamente l’attenzione del lettore su determinati aspetti della narrazione che se non fossero “resi assurdi” potrebbe sfuggire alla sua comprensione o comunque non avere l’importanza che meritano ai suoi occhi.


Bibliografia: “Nuovo Quattro colori- Libro Giallo”, A. Mariotti/ M.C. Sclafani/ A. Stancanelli, Casa Editrice G. D’Anna, 2000.


Per approfondire:

https://it.wikipedia.org/wiki/Lev_Tolstoj

https://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_e_pace

https://it.wikipedia.org/wiki/Jonathan_Swift

https://it.wikipedia.org/wiki/I_viaggi_di_Gulliver

https://it.wikipedia.org/wiki/Giovanni_Verga

https://it.wikipedia.org/wiki/Verismo













sabato 21 novembre 2015

Vaneggiamenti di una Scribacchina: 15 "Show, don't tell?!"






“Books are a uniquely portable magic.” 

Stephen King

                 
 Show, don't tell?!



Oggi parliamo del vecchio adagio che tutti gli scrittori conoscono -e a volte odiano!-, il famigerato show, don’t tell e cioè: mostra, non raccontare.

Una discussione fra scrittori o anche una rapida ricerca sul web vi mostrerà e racconterà che esiste un vero e proprio scisma di opinioni quando si parla di questo approccio narrativo.

Prima di discuterne la validità, vediamo un po’ di cosa si tratta…

Per farlo vediamo un po’ qual è la differenza fra il mostrare e il raccontare.

Mostrare qualcosa significa mettere in scena una situazione che rivela qualcosa a chi legge, senza prenderlo per mano e direzionarlo verso una certa idea, piuttosto che un’altra.

 Il lettore “assiste” alla scena per come essa si svolge ed è lasciato libero di formarsi una propria idea su quanto sta leggendo.

Raccontare significa inserire del testo delle informazioni precise nelle quali il significato emerge chiaramente dal significante.


In narrativa, il mostrare fa affidamento su alcune tecniche specifiche:

 Scene “filmiche”, quindi visive

Descrizioni delle azioni dei personaggi

 Dialoghi estensivi

Riferimenti sensoriali


Il Raccontare invece consiste nel:

• Descrizione diretta delle caratteristiche di un personaggio mediante l’uso di aggettivi

• Esposizione didascalica degli stati d’animo di un personaggio

 • Appiattimento dei dialoghi



Visto che per comprendere una tecnica di scrittura creativa, niente è come la pratica, facciamo un piccolo esempio…

Vediamo una “scena” raccontata:

Anne era davvero sempre molto triste.


E ora, la stessa scena, ma mostrata:

La stanza era immersa in un buio uniforme.
Era giorno o notte?
Quanto tempo aveva passato stesa lì, senza muoversi, senza neppure dire una parola. 
Anne singhiozzò contro il cuscino, ma dai suoi occhi non uscirono più lacrime. Forse le aveva piante ormai tutte. Poteva sentire la pelle degli zigomi tirarle appena sotto gli occhi, il pianto della scorsa notte le si era seccato sul viso, come era accaduto anche la sera precedente e quella ancora prima.


Sì, lo so: non sono un granché, ma rendono l’idea…

Volete un altro esempio?

Eccone uno tratto dalla pagina dedicata all’argomento su Wikipedia:


Scena raccontata:

Miss Parker era una ficcanaso. Spettegolava sui suoi vicini.


Scena mostrata:

Abbassando le tendine solo un po', Miss Parker poté appena sbirciare attraverso la finestra e vedere il Ford Explorer parcheggiato sulla strada. Occhieggiò per avere una vista migliore dell'uomo che, alto e muscoloso, stava uscendo dall'automobile incamminandosi verso l'ingresso di Miss Jones. L'uomo suonò il campanello. Quando Miss Jones aprì la porta e salutò lo sconosciuto con un abbraccio, Miss Parker spalancò la bocca e corse verso il telefono.
"Charlotte, non mi crederai quando ti dirò quello che ho appena visto!" Miss Parker sbirciò ancora fuori dalla finestra per vedere se l'uomo era ancora nella casa.


La raccomandazione insita nel monito è  piuttosto chiara “mostra cosa accade nella storia, non limitarti a descriverlo.”


Una domanda a questo punto sorge spontanea: è giusto mostrare soltanto, allora?

Si possono veramente prendere alla lettera le parole show, don’t tell?

O, giusto per essere più chiari, si può applicare “puristicamente” e su tutta la linea questa tecnica durante la stesura di un romanzo?

Le risposte a questi interrogativi sono tante quanti sono gli scrittori là fuori, probabilmente.

Essenzialmente se volessimo generalizzare, potremmo dire che ci sono tre voci di pensiero principali.

Ci sono molti scrittori che “spregiano” completamente il raccontare e si affidano unicamente al mostrare.

Ce ne sono molti altri che si indignano davanti a qualsiasi regola stilistica e in particolare davanti a quella della quale stiamo discutendo, in quanto l’arte secondo questa corrente di pensiero non dovrebbe essere limitata in alcun modo, né condizionata.

E infine ci sono quelli che condividono l’idea alla base di questa tecnica, ma solo se usata con moderazione.


Visto che questi sono i miei vaneggiamenti, mi permetto di esprimere il mio parere…

Io sono tra quegli scrittori che fanno parte del terzo gruppo: credo che lo show don’t tell sia utile, ma che non vada applicato rigorosamente e indistintamente all'intero testo di un romanzo. Per me è una raccomandazione da applicare dove possibile e dove necessario, non una regola da seguire religiosamente.

Perché?

Per il bene della storia e dei lettori che dovranno sorbirsela.


Immaginatevi un libro scritto tutto con la tecnica dello show don’t tell…

Sarebbe lunghissimo, il lettore non avrebbe un momento di riposo e soprattutto tutte le varie parti del romanzo, tutte le sue “scene” sarebbero messe allo stesso piano.


Vediamo allora come sarebbe un libro tutto raccontato…

La risposta è semplice. 

Non sarebbe un libro: sarebbe il riassunto di un libro.

Ma perché uno scrittore dovrebbe avere  la necessità di “raccontare” determinate parti della storia, se il racconto è una tecnica così riduttiva e “piatta”?

Per il semplice fatto che non tutte le parti della storia, non tutte le “scene” hanno la stessa importanza. 

Talvolta può accadere che un romanziere inserisca direttamente delle informazioni del testo e le usi come espediente per tirarsi fuori da una scena che sarebbe superfluo mostrare per poter “saltare” direttamente ad un passaggio più significativo della stessa sezione o verso parti più importanti della storia.


Come uscire da quest’impasse, allora?


Una valida risposta -almeno per me e per la mia scrittura- è che la verità sta nel mezzo.


Bisogna sia mostrare che raccontare la storia, solo in questo modo ogni suo aspetto avrà il giusto spazio.

“Mostrando” determinate scene, lo scrittore le rende vivide, ma se lo fa con ogni parte del narrato, le cose che dovrebbero emergere non vengono fuori, senza contare fatto che leggere un libro tutto “mostrato” può rivelarsi davvero molto stancante da leggere visto l’estrema densità del contenuto.

 Uno scrittore dovrebbe dare il giusto rilievo alle scene importanti drammatizzandole, e cioè mostrandole, ma per far sì che il ritmo della narrazione non sia troppo lento e la storia possa progredire in maniera naturale, dovrebbe anche usare la tecnica del raccontare.


Ma come si stabilisce quando è necessario mostrare?

Io sono dell’idea che non possa esistere una risposta univoca.

In linea di massima, chi scrive dovrebbe “mostrare” le cose sulle quali vuole attirare l’attenzione del lettore:

- Dialoghi che fanno emergere un determinato tratto caratteriale di un personaggio o ci svelano i retroscena di una situazione

-momenti di svolta della trama

-momenti chiave perché particolarmente importanti per la crescita di un personaggio o la comprensione di un avvenimento

- scene particolarmente drammatiche


Al contrario, i punti di collegamento fra le scene importanti —come scene di tragitto, o che descrivono il passaggio del tempo, dialoghi di poca importanza—  possono anche essere semplicemente riassunti attraverso il racconto in modo da evitare descrizioni superflue o eccessivamente lunghe.


In conclusione, almeno secondo la mia vaneggiante opinione, l’approccio show, don’t tell va usato con cognizione di causa, sempre tenendo presente che una storia che funziona, è una storia nella quale chi scrive ha usato il giusto equilibrio fra il mostrare e il raccontare.



sabato 7 novembre 2015

Vaneggiamenti di una Scribacchina: 14 "Let's talk about... POV




“You get a little moody sometimes but I think that's because you like to read. People that like to read are always a little fucked up.”
- Pat Conroy

                 

Let's talk about... POV


Oggi approfondiamo un po’ il discorso sul POV, vale a dire il Point of View, il Punto di Vista…

Quando ci accingiamo a scrivere una storia —o a leggerla, se è per questo— le prime domande che ci poniamo sono:

“Chi la racconterà?”

E…

“In che modo lo farà?”


A queste due domande possiamo dare un’iniziale risposta piuttosto precisa determinando il POV dal quale è narrata la storia.


 Mettiamo il lettore da parte per un momento e vestiamo unicamente i panni dello scrittore.
 Immaginiamo di essere in fase di outlining di un romanzo, in piedi sul bordo della nostra fantasia a guardare giù verso la storia che vogliamo raccontare, come stabiliamo il Punto di Vista che vogliamo utilizzare durante la narrazione?

Senza addentrarci troppo nell’enorme territorio di opinioni che esistono là fuori a questo proposito, possiamo molto semplicemente limitarci a tre possibilità molto basic:

1 Lo scrittore sceglie a priori il/i POV della sua storia, adeguandolo/li di volta in volta alle esigenze narrative.

2 Il germe stesso dell’idea alla base della storia “suggerisce” allo scrittore quale sarebbe il miglior modo per raccontarla e quindi quale potrebbe essere il POV più indicato.

3 Lo scrittore è “affezionato” ad una certa tipologia di POV e/o tecnica narrativa e adatta tutte le storie che gli vengono in mente ad essa.


Volendo essere buoni —o forse sarebbe meglio dire, buonisti— si potrebbe sostenere che ognuna delle tre possibilità sopraelencate abbia i propri meriti e i propri difetti e tutti e tre gli approcci siano perfettamente validi e intercambiabili; ma io non sono qui per essere buona. Sono qui per essere onesta, quindi ammetto apertamente di avere un’insormontabile antipatia verso l’ultima possibilità, perché la trovo troppo “statica” per i miei gusti.

Personalmente, durante la fase di outlining tendo di più verso la prima e la seconda possibilità; con questo voglio dire che cerco di determinare quale sia il miglior modo, il modo più efficace, per raccontare i fatti anche se alla fine la scelta più indicata è un qualcosa con la quale non mi sento a mio agio —magari perché è una tecnica che non ho mai usato prima o un POV che mi è completamente estraneo— e quando mi capita, invece, di  “vedermi suggerito” il POV direttamente in fase di inception mi fido dell’istinto e seguo la storia.


Quale che sia il vostro metodo preferito, in un’ultima analisi siete sempre voi —intendo gli scrittori— a determinare la scelta del POV.


Quindi torniamo alla prima domanda che ci siamo posti, ma formuliamola meglio:

“A chi faremo raccontare la storia?”

Dunque, quale personaggio possiede la “voce” che vogliamo ascoltare di più, quella più determinante per la storia?

Rispondere: “il personaggio principale, no?”, sarebbe troppo semplicistico anche se molte volte è vero.

Una volta individuato il personaggio chiave della narrazione, andiamo a determinare il tipo di focalizzazione e quindi il POV della storia.



Ma quanti tipi di POV esistono?

E dobbiamo usarne per forza uno solo all’interno di un romanzo?

Vediamo un po’…


Ecco uno schema dei vari tipi di POV che possiamo incontrare nella fiction:


  • Prima Persona singolare (estremamente popolare nei romanzi di oggi)
  • Seconda Persona (il suo utilizzo è piuttosto raro)
  • Terza Persona limitata(anche questo molto, molto usato nella narrativa moderna)
  • Terza Persona limitata multipla (anche questo molto usato)
  • Terza Persona (singola o multipla) con narratore onnisciente (abbastanza comune, direi…)
  • Prima Persona plurale (sì, a quanto pare c’è qualcuno che la usa in narrativa là fuori…)



Andiamo un po’ ad analizzare le  tipologie principali con qualche esempio e vediamo un po’, laddove presenti, i pregi e i difetti di ciascun POV.


PRIMA PERSONA

Nella narrazione in 1°P., l’intera azione è vista attraverso gli occhi del narratore (Io vidi questo… dissi quello… mi sentii così…)

Nelle storie in 1°P., il narratore ( che sovente è il protagonista stesso) può raccontare solo le scene nelle quali è presente (in un modo o in un altro). Di regola, non ci possono essere scene nelle quali si mescola 1° e 3° persona.

Ecco alcune cose da prendere in considerazione quando si utilizza la 1°P.:

- Lo stile di scrittura deve essere adeguato al personaggio o viceversa. Non si possono, ad esempio, scrivere descrizioni ultra-poetiche e complesse se il personaggio che narra è una bimba di cinque anni.

-Visto che le cose narrate devono essere necessariamente quelle alle quali il narratore ha assistito; all’interno di un libro in 1°P. non possiamo raccontare ciò che avviene quando il narratore non è presente, quindi dovremo necessariamente adattare la nostra trama per assecondare la necessità che il narratore sia presente alle scene chiave.

-Nonostante la difficoltà di dover adattare la trama alle “limitazioni della prima persona”, questa tecnica di POV ha il vantaggio di essere più “semplice” da gestire rispetto alle altre.



TERZA PERSONA SINGOLA

La narrazione dalla prospettiva in 3°P. (Lui pensò… lei disse…) offre una maggiore flessibilità nelle seguenti aree:

-Lo stile di scrittura non deve necessariamente rispecchiare il personaggio, sebbene ne segua il punto di vista. Ad esempio, anche se il nostro protagonista è una persona poco incline all’introspezione, usando la narrazione in 3°P. lo scrittore può comunque esplorare i suoi sentimenti e le sue idee approfonditamente se crede che la trama possa beneficiarne.

-All’interno di una narrazione in 3°P. singola, chi scrive mantiene un POV univoco per tutta la storia, ma è comunque possibile adottare in alcuni punti un POV secondario per descrivere un particolare plot twist importante nella narrazione, ma del quale il vostro personaggio principale non è a conoscenza (è preferibile farlo poco, però, perché la narrazione perde il suo focus in caso contrario).

TERZA PERSONA MULTIPLA

 Questa tecnica narrativa —come dice il nome—  mantiene l’uso della terza persona, ma non segue un unico personaggio per tutta la narrazione, mettendo in pratica quello che viene chiamato “head hopping” e cioè "salto di testa in testa".

In una narrazione di questo genere, sono presenti come minimo due POV alternati, ma possono esserci davvero moltissimi Punti di Vista.

-Una cosa da non dimenticare quando si scrive in 3°P. multipla è che il lettore guarda dove lo scrittore punta, ma questo non vuol dire che se una cosa è ovvia per lo scrittore lo sarà anche per chi legge; per questa ragione è bene evitare di confondere chi legge con multipli punti di vista all’interno di una sola scena. Anche qualora il lettore riesca a seguirvi, non vuol dire che apprezzi di essere “sballottato” di personaggio in personaggio ad ogni paragrafo. 

-Di norma, non si dovrebbe utilizzare in letteratura il POV di un personaggio non sviluppato. Che cosa può importare al lettore dei sentimenti o delle idee di un personaggio che non conosce e che magari all’interno della narrazione non rivedrà più o incontrerà solo di rado? Il problema qui nasce dal fatto che molti scrittori utilizzano tecniche di scrittura tipiche del cinema o della televisione in letteratura, ma non bisogna dimenticare che un romanzo non è un film.

-Con l’aumentare dei POV multipli, aumenta anche la frammentazione della narrazione, quindi quella della 3°P.multipla è una  tecnica da non prendere sotto gamba e di norma è bene non utilizzare più di 4 o 5 POV all’interno di un libro; ovviamente ci sono anche scrittori che riescono a gestire con assoluto aplomb anche una pletora di POV (si pensi ai lavori del compianto Tom Clancy), ma non tutti siamo a quel livello o comunque non tutti vogliamo scrivere qualcosa che risulterebbe straordinariamente complicato da leggere.


Approfondiamo un po’ la terza persona limitata…

Con questa terminologia indichiamo una tecnica narrativa nella quale la scrittura si riferisce a tutti i personaggi in terza persona. Ogni scena segue il POV di uno specifico personaggio.

Perché si chiama limitata?

Qual è il suo limite?

Il narratore può raccontarci solo cose che il personaggio vede, sente, pensa e sa…

Questa limitazione è anche la maggiore differenza che esiste con la narrazione in terza persona a narratore onnisciente, nella quale, benché lo scrittore segua un determinato POV all’interno della scena, può comunque “rivelare” a chi legge aspetti della storia o degli altri personaggi che esulano dalla comprensione del personaggio chiave,  e lo fa attraverso un invisibile narratore onnisciente, appunto.

Facciamo un piccolissimo esempio con una breve scena.


Terza Persona Limitata:

“Come puoi pensare questo di me, Barbie?”, Ken era consapevole di apparire disperato a quel punto. La loro storia ormai era finita, lo sapeva bene.
Barbie lo squadrò dalla testa ai piedi e per un attimo Ken pensò di poter leggere chiaramente il disprezzo nei suoi occhi.


Terza Persona con narratore onnisciente: 

“Come puoi pensare questo di me, Barbie?”, Ken era consapevole di apparire disperato a quel punto. La loro storia ormai era finita, lo sapeva bene.
Barbie lo squadrò dalla testa ai piedi e per un attimo non fu in grado di nascondere il disprezzo che provava per lui dal proprio sguardo.


***
Nella prima versione il lettore sa come si sente Ken e sa cosa lui pensa di leggere nello sguardo di Barbie, ma non è certo che Ken abbia ragione.

Nella seconda, il lettore sa per certo che Barbie disprezza Ken.

La differenza non è da poco.

Vediamo un altro esempio…



Narratore Limitato…

Ken non era sicuro di aver detto la cosa giusta. Il viso di Barbie era privo di espressione. “Mi dispiace tantissimo, tesoro!”,  lui si scusò di nuovo. 


Narratore Onnisciente…

Ken non era sicuro di aver detto la cosa giusta. Barbie pensò che era arrivato il momento di perdonarlo, ma forse tenerlo un altro po’ sulle spine sarebbe stato divertente. “Mi dispiace tantissimo, tesoro!”, lui si scusò di nuovo.


***


Una prima cosa che notiamo è che la scena con il narratore onnisciente ci fornisce molte più informazioni.

La seconda cosa da attenzionare è il fatto che nel rivelare queste informazioni a chi legge il ritmo narrativo perde la sua suspense, sappiamo subito cosa pensa e prova Barbie e non ci possiamo più identificare con l’insicurezza di Ken.

Tenuto conto di quanto sopra, sarebbe il caso di scegliere fra narrazione limitata e onnisciente facendo particolare attenzione al genere letterario della storia.

Giusto per fare due esempi: un giallo perderebbe di fascino e di mistero con il narratore onnisciente, mentre una commedia brillante mancherebbe di qualcosa senza di esso.

Un esercizio abbastanza utile (se lo dice anche Stephen King, deve essere utile per forza!) è quello di dare un’occhiata alla vostra libreria personale, prelevare casualmente  un certo numero di libri e studiare i vari POV usati dai romanzieri per narrare le diverse storie.

In generale, si possono fare alcune osservazioni relativamente alle due varianti principali.

La prima persona può certamente conferire al narrato un senso di intimità che manca agli altri POV, ma chi la sceglie, sacrifica necessariamente la possibilità di fare il tanto decantato “head hopping”,  nonché  la possibilità  di raccontare scene nelle quali il protagonista  è  assente e tutto ciò  dal mio punto di vista, pur favorendo l’identificazione fra personaggio e lettore può rendere la narrazione emotivamente e descrittivamente statica, almeno secondo la mia opinione. 

La terza persona (limitata o multipla che sia), a mio parere,  garantisce un ritmo narrativo più fluido e variabile e cala molto bene un lettore all’interno della storia, ma nasconde molte insidie; specie nel caso del POV multiplo. 
Un coro di tante voci può creare una cacofonia invece che una melodia armonica, se non stiamo attenti. Senza contare il fatto che tanti POV possono equivalere a tante possibilità in più di fare errori.

Provate a fare una ricerca sui gusti dei lettori in merito, troverete tante opinioni a favore della narrativa in Prima Persona, quante ne troverete in favore di quella in Terza e non c’è niente di strano in questo. 
Dopotutto ci sono un sacco di persone che quando fanno un lungo viaggio in macchina scelgono di ascoltare un CD di “Artisti Vari”, esattamente come esiste un numero altrettanto alto di gente che preferisce ascoltare per molte ore CD di un solo musicista, no?!

Io appartengono un  po’ a tutte e due le categorie, sia come ascoltatrice di musica che come lettrice e scrittrice.

Non esiste una regola principe quando parliamo di POV se non la seguente, credo:

Quando si scrive una storia -parlo di fiction in particolare- bisogna scegliere a priori il Punto di Vista da adottare e usarlo coerentemente, esercitando un totale controllo su di esso.


Lo scrittore direziona lo sguardo di chi legge, perciò è compito suo permettere al lettore di ricevere informazioni che arrivino da una fonte chiaramente identificabile e quindi da un POV univoco e consistente se non all’interno dell’intero romanzo (sarebbe impossibile nel caso del POV multiplo), per lo meno all’interno di ciascuna scena che lo compone.

Vista la “facilità” con la quale è possibile 
determinare un dato POV si potrebbe pensare che usare un POV senza commettere errori sia altrettanto semplice. Si potrebbe pensare… e si sarebbe in errore.

Con il Punto di Vista non si scherza, ne vale della credibilità dei personaggi e con essa della credibilità stessa della storia narrata.
Un POV mal gestito strappa il lettore dal racconto e blocca la sua sospensione dell’incredulità, facendogli immediatamente percepire di stare leggendo qualcosa di fittizio e noi questo non lo vogliamo, giusto?!

Gravi errori nell’uso del POV possono essere handicap così pesanti per la storia da poter costringere lo scrittore a doverla riscrivere da cima a fondo…

A parte “la regola” sopradescritta, va tenuta a mente un’altra cosa:

Nella narrazione di una storia, quando si adotta un certo POV bisogna far sì che esso sia sempre coerente con il personaggio che rappresenta. 

Immaginatevi di staer raccontando una storia che ha come protagonista una ragazzina di dodici anni e di stare usando il suo punto di vista alla terza persona, ma senza narratore onnisciente. È plausibile che la giovanissima protagonista abbia le stesse conoscenze di astrofisica di uno scienziato della NASA?

Direi di no…


Quindi?


1 Create un POV coerente e non cambiatelo in maniera confusionaria all’interno di una singola scena senza avvertire chi legge.

2 Tenete a mente chi è il personaggio il cui punto di vista state usando e create una certa uniformità fra chi è lui/lei e cosa pensa/cosa vede etc…

3 Laddove possibile, adattate la tipologia del POV al genere della storia che state raccontando.

4 Un modo carino -e soprattutto chiaro- di indicare il cambio del punto di vista all’interno di una scena può essere lasciare uno spazio bianco; allo stesso modo, un cambio di POV all’interno di un capitolo può essere indicato con un chiaro segno, ad esempio questo: ***

5 Se state narrando una scena dal POV di Ken non inserite in essa informazioni relative a cose che solo Barbie conosce.

6 Allo stesso modo se  in una scena con Ken e Barbie avete deciso di adottare il POV di Ken, non potete fornire al lettore informazioni sullo stato d’animo o sui pensieri di Barbie a meno che esse non arrivino da Ken stesso che le ha dedotte dal tono della voce, dalle espressioni facciali o dai manierismi di Barbie. 



Per approfondire…

 http://www.advancedfictionwriting.com/blog/2014/04/30/head-hopping-fiction-writing/

https://en.wikipedia.org/wiki/Tom_Clancy

https://en.wikipedia.org/wiki/Narration

https://it.wikipedia.org/wiki/Focalizzazione_(narratologia)

venerdì 6 novembre 2015

Unboxing di Blood Butterfly!

Come anticipato, ecco finalmente l'unboxing di Blood Butterfly!

Ringrazio la mia nipotina Marika per aver scattato le foto e per avermele inviate dalla Sicilia, rendendo così' possibile la realizzazione del video <3




Vi ricordo che una copia del cartaceo insieme a due regali che svelerò più avanti, sarà il premio del Giveaway che organizzerò tra breve.

La colonna sonora del video è "Bullet with Butterfly wings" degli Smashing Pumpkins, una canzone che è parte integrante della narrazione, come sapete.

Il resto della Colonna sonora del libro potete ascoltarlo su Spotify seguendo questo link!





martedì 3 novembre 2015

Blood Butterfly

Un post super-rapido per informarvi che nei prossimi giorni arriverà  il cartaceo di Blood Butterfly.
Restate sintonizzati per le foto in anteprima  e le novità  sul give-away e i suoi premi speciali...