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sabato 16 gennaio 2016

Vaneggiamenti di una Scribacchina: 18 "La letteratura del Brivido, Parte I: Perché leggiamo l'Horror?"



“Books are the perfect entertainment: no commercials, no batteries, hours of enjoyment for each dollar spent. What I wonder is why everybody doesn't carry a book around for those inevitable dead spots in life.”

- Stephen King

                 
La Letteratura del Brivido, Parte I: 

Perché leggiamo l'Horror?


Benvenuti a questo primo appuntamento vaneggiante del 2016 che apre una nuova “sezione” della rubrica: quella dedicata agli approfondimenti letterari. 

In questa prima “serie” parleremo della Letteratura del Brivido e dei suoi vari sottogeneri e aspetti più caratteristici.

Perché esiste la letteratura del brivido? 

Quale bisogno primigenio soddisfa?

Perché ci piace leggere storie che ci spaventano?

Tutte domande perfettamente logiche, no?

 E nessuno potrebbe rispondere ad esse meglio del maestro indiscusso del brivido moderno.

Ecco perché, in questa introduzione, passerò virtualmente il testimone all'inimitabile Stephen King e userò le sue parole per descrivere il concetto di Paura e il rapporto di attrazione e repulsione che le persone in generale e coloro che leggono in particolare hanno con essa.

*“Parliamo, voi e io. Parliamo della paura.
La casa è deserta, mentre scrivo; fuori cade una gelida pioggia di febbraio. È sera. A volte quando il vento soffia come sta soffiando ora, la luce se ne va. Ma per ora c’è, perciò parliamo molto francamente della paura. Parliamo molto razionalmente di come si arriva all’orlo della follia… e forse al di là del baratro.

Non alzeremo la voce e non ci metteremo a urlare. Parleremo razionalmente. Voi e io. Parleremo del modo in cui il solido tessuto delle cose si disfa, a volte, con una subitaneità che ci lascia scossi.

Perché la gente legge roba simile, come mai si vende? Questa domanda nasconde in sé un presupposto, e il presupposto è che una storia sulla paura, una storia sull’horror, è di gusto malsano.

Via che diveniamo consapevoli della nostra scomparsa, diveniamo consapevoli della paura.


La paura è uno stato d’animo che ci acceca. Di quante cose abbiamo paura? Abbiamo paura di spegnerla luce con le mani bagnate. Abbiamo paura di conficcare un coltello nel tostapane per tirar fuori la fetta rimasta incastrata senza staccare prima la spina. Abbiamo paura di quello che può dirci il medico quando  la visita è finita; o quando l’aereo precipita improvvisamente in un vuoto d’aria. Abbiamo paura che il petrolio possa esaurirsi, che possa esaurirsi l’aria buona, che possa finire il nostro benessere, o l’acqua. 
Quando nostra figlia promette di essere a casa per le undici ma è ormai mezzanotte e un quarto e l pioggia batte come pietrisco contro i vetri, fingiamo di guardare tranquillamente la televisione ma ogni tanto l’occhio corre al telefono muto e avvertiamo quell’emozione che ci rende ciechi, che furtivamente manda in rovina i processi mentali.
Il bimbo è un essere senza paura soltanto fino alla prima volta che la mamma non è la per ficcargli il capezzolo in bocca appena lui piange. 
Il pargoletto scopre ben presto le penose e brusche verità della porta che sbatte, del fornello che scotta, della febbre che sale quando ha l’influenza o il morbillo. I bambini imparano in fretta la paura; la leggono sulla faccia del padre o della madre quando il genitore entra nel bagno e li sorprende  con in mano la boccetta di pillole o il rasoio.
La paura ci rende ciechi e noi tocchiamo ciascuna paura con l’avida curiosità dell’interesse personale, cercando di ricavare un intero da cento parti.

Captiamo la forma. I bambini l’afferrano facilmente, la dimenticano, tornano ad impararla da adulti. La forma è là, e tutti arriviamo presto o tardi a comprendere che cosa è:è la forma di un cadavere sotto un lenzuolo. Tutte le nostre paure assommano a una sola, grande paura, fanno tutte parte di quell’unica paura: un braccio, una gamba, un dito, un orecchio. Abbiamo paura del cadavere sotto il lenzuolo. È il nostro cadavere. E il grande significato della narrativa dell’orrore, in tutte le epoche, è che essa serve da prova generale per la nostra morte.

Chi scrive storie dell’orrore porta sempre cattive notizie: un giorno morirai, afferma.

Ti prende la mano, la imprigiona nella sua, ti accompagna nella stanza, ti fa mettere le mani sulla forma che sta sotto il lenzuolo… e ti dice di toccarla qui… qui… e qui…

La paura è sempre stata qualcosa di grosso. Anche la morte è sempre stata qualcosa di grosso. Sono due delle costanti umane. Ma soltanto chi scrive dell’orrore e del soprannaturale offre al lettore l’occasione di una identificazione totale e di una catarsi.
Chi lavora nel genere e ha un’idea anche pallidissima di quello che fa, sa perfettamente che l’orrore, il soprannaturale costituiscono una specie di schermo, un filtro tra il conscio e il subconscio; nella psiche umana, la narrativa dell’orrore è come una stazione
 Centrale della sotterranea tra la linea azzurra di ciò che possiamo interiorizzare senza pericolo e la linea rossa di quello di cui dobbiamo sbarazzarci in un modo o nell’altro.

Davanti a un racconto dell’orrore, non riusciamo a credere realmente a quello che leggiamo. Non crediamo nei vampiri, nei lupi mannari, nei camion che improvvisamente si mettono in moto e si guidano da soli. Gli orrori ai quali tutti crediamo sono quelli descritti da Dostoevskij, Albee, MacDonald: l’odio, l’alienazione, la vecchiaia senza amore, l’avanzare in un mondo ostile sulle gambe malferme dell’adolescenza. Siamo spesso, nella quotidiana realtà, come le maschere della Commedia e della Tragedia, sorridiamo di fuori, facciamo una smorfia di dentro. C’è un punto centrale di scambio dentro di noi, un trasformatore, dove i fili che partono dalle due maschere si collegano. Ed è quello il punto dove così spesso il racconto dell’orrore colpisce nel segno. 

Il racconto di mostruosità e di terrore e come un cesto riempito alla rinfusa di fobie: quando l’autore passa accanto a voi, prendete dal cesto uno dei suoi orrori immaginari e deponete al posto di quello uno dei vostri orrori reali… almeno per un po’ di tempo.

Chi scrive racconti dell’orrore, quando coglie nel segno, è quasi sempre al termine dove le due linee fanno capo. E, quando ci dà il meglio di sé, abbiamo spesso la strana sensazione di non essere né addormentati né svegli. Il tempo si altera, si deforma, udiamo voci ma non riusciamo a distinguere le parole, il sogno sembra reale e la realtà è simile a un sogno.
È un terminal strano e meraviglioso.”


Be’… direi che nessuno spiega il nostro fascino per la paura e il nostro bisogno di esorcizzarla attraverso il fantastico meglio di Stephen King, non trovate?

Questa necessità di scrittori e lettori di “sostituire” terrori reali con paure immaginarie è quindi la ragione-base per la quale esiste la letteratura del brivido che esploreremo nei prossimi vaneggianti appuntamenti.

Il prossimo weekend, non perdetevi perciò, l’uscita scribacchinosa della seconda parte de “La letteratura del Brivido” nella quale tratteremo dell’Horror come genere letterario.




*Gli stralci sopra trascritti sono tratti dalla prefazione che Stephen King stesso scrisse per la sua raccolta “Night Shift” del 1978 (A volte ritornano), se vi è possibile vi consiglio di leggere l’intero brano, oltre che alla stupenda raccolta in sé, ovviamente.


Per approfondire:

https://en.wikipedia.org/wiki/Night_Shift_(book)

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